Premio Bologna in Lettere 2024
Sezione C – Poesie singole inedite
Di luce si nutre la poesia di Giovanna Miceli, finalista di questa edizione 2024 del premio di Bologna in Lettere, e di ciò ci si accorge a prima lettura. Ma il luogo da cui ha insorgenza è piuttosto una zona mediana, una stanza mentale in bilico tra chiaro e scuro, in parte «ancorata al suolo», in parte tesa verso il «lucernario a cielo aperto», uno “stare-tra” l’opacità di cui sono connotati i risvegli e il chiarore dell’esterno promesso dalla finestra, una vita che si colloca «al centro» dei vettori, tutta consustanziata di tempo, ma anche in questo caso un tempo bifronte, «che punge» e «ronza» come il più fastidioso degli insetti, pure è vegliato e redento da «un bambin gesù di cera» dentro una teca trasparente, ovvero il contrario esatto di ciò che è opaco e non si lascia attraversare dalle radiazioni. L’esistenza è qui riletta attraverso il paradigma della visibilità e quindi ha per soggetto in ostaggio gli occhi, strumenti di per sé annodati e potenziali, in attesa di essere attivati dalla luce. Ma «ricomporre la luce sulle cose» col suo limpido perfetto endecasillabo è aspirazione, processo di per sé problematico al chiuso, all’interno della caverna platonica creata dalla parentesi, dove l’abituale, il già-accaduto, il sedimento traccia «ragnatele agli angoli» e su «muri pergamena» sui quali il flusso non può che coagulare come documento ingiallito. L’«azzurro» resta «là fuori», riproduzione amputata di un’alba che implode, viene sepolta «appena nata», riversata in ciò che la assorbe e la annienta. Un rituale di morte dal quale però un nuovo paradigma prende forza e rifiorisce, adeso a quell’udibilità che si era proposta come evento scatenante d’apertura, il «battito d’ali» improvviso e sempre imprevedibile cui risponde la fame d’aria delle voci, l’urgenza delle bocche che «premono sui vetri». Molti sono, infatti, gli ostacoli che si frappongono al processo di visibilità/intelligibilità quando si tratta del «corpo» e il dismorfismo si manifesta come esito inevitabile, «necessario disfarsi» in un riflesso «senza muscoli tendini ossa», in quanto lo specchio occorre a sua volta come scenario «distorto» che nella sua paradossale orizzontalità di tavolo operatorio risulta in una pluralità cangiante di soggetti mutanti, estranei alla percezione di sé. La risposta all’enigma sono «puntini di sospensione», l’effimera promessa di bellezza dei «fiori nel vaso», l’utopia di un visibile («formica nera… sul muro bianco») in sintonia con l’udibile (lo sgocciolio del cielo), di un precario equilibrio tra forma e informe, uno e molteplice, solidità e liquidità, movimento dall’alto e dal fondo («acqua che torna / dal lavandino»). (Maria Luisa Vezzali)