Premio Bologna in Lettere 2024
Sezione B – Raccolte inedite
Su Tamburo di Pasquale Pietro Del Giudice
Quella attuale è una stagione della poesia in cui la domanda sul soggetto, sulla sua integrità e sulla sua capacità di autorappresentarsi con sicurezza ed esaustività, occupa una zona centrale. Tale domanda interessa anche Del Giudice, che in Tamburo, al cospetto di un io «essiccato» e «caduto dall’albero», come dice la programmatica Prima persona scortese, convoca tutte le contraddizioni del vivere senza possedere davvero la possibilità (poetica) di potersi dire vivi. Uso il verbo “interessa” perché in Del Giudice la questione è affrontata anche teoricamente: a Tamburo appartiene una linea meta-poetica che ripiega il discorso sui presupposti dello scrivere («Liberarsi dalle idee di poesia») e non disdegna neanche un tono sarcastico e polemico verso il contesto letterario («I più fortunati faranno mostra di sé nei menù dei critici stellati», «Ho digerito e defecato / poesie liriche, testi figurativi / e decostruzionisti»).
Più che a un’esperienza sublime ed eletta, quindi, la scrittura in Del Giudice assomiglia a una pratica da sbrigare, insicura e nervosa, una delle tante falle del vivere in cui l’individuo di Tamburo continuamente ricade. È così, infatti, che i passaggi meta-poetici andrebbero accolti: non tanto tasselli di una teorizzazione sistematica sul fare scrittura; bensì ennesimi spietati auto-giudizi su una delle faccende in cui la voce che dice io è coinvolta. Le altre, del resto, spaziano nell’intero campo dell’esistenza: dal «primo giorno di scuola» (inteso come momento aurorale di una costrizione all’intelligenza) alla manutenzione della casa («meri esercizi di frustrazione»), dalla precarietà lavorativa («Capita che un disoccupato si butti giù») al sesso e alla masturbazione («Seme a grumi, figliolanza dispersa in bocca»). E proprio per questo – per questo universale senso di sperpero – la parte meta-poetica acquista una funzione anche trasversale: il soggetto a noi contemporaneo è un soggetto mediamente colto e iper-consapevole, e questo concorre al suo blocco di fronte alla vita, alla sua costante meta-cognizione e conseguente incapacità di digerire l’esperienza.
I momenti migliori di Tamburo, del resto, sono quelli in cui Del Giudice non teorizza, ma performa, questo tipo di esperienza (o di non-esperienza, diaframma tra percezione e vita). Per afferrare questo punto è utile evidenziare due elementi distintivi dello stile di Del Giudice. Uno riguarda l’inspessimento del lessico e l’impatto delle immagini. La quasi totalità dei testi (fanno parziale eccezione quelli più scarni) è marcata da un piglio espressionista, sia per quanto riguarda la spettacolarità corporea di molte immagini («Il passato mi ha bloccato le vene del cervello, un boccone mi ha bucato lo stomaco») sia per la varietà e ricchezza lessicale («fleboclisi», «umanoide ciarlatano», «antifiatare», «drumming»…). Ancora più rilevante è però l’uso insistito che Del Giudice fa dell’asindeto: la maggior parte dei testi (sia in prosa sia in versi, con Tamburo che oscilla agilmente tra le due possibilità) sono caratterizzati da più o meno lunghi accumuli di oggetti, concetti o immagini attraverso la virgola. Se questo da una parte si accorda bene al lessico esploso, alimentando le tecniche di variazione e accostamento, dall’altra, soprattutto, serve a Del Giudice per portare avanti la cinica radiografia sul soggetto che è, al fondo, centro tematico e concettuale dell’opera. Le figure che animano Tamburo, e più di tutte la figura-io, la funzione-soggetto, sono identificate attraverso stringhe associative, esplicazioni simboliche che, proprio affastellandosi, rivelano la loro incapacità ermeneutica e la loro natura effimera. «Io burattino burattinaio, vicolo cieco, schiera di aborti, di sosia mal riusciti, di passi falsi, messo sotto da un treno di ricordi o una serie di suole»: la simbiosi tra crisi del dominio del soggetto sulla realtà e inefficienza del linguaggio è evidente.
Da qui si comprende anche che tipo di paesaggio disegna Tamburo, ovvero il fatto che, quando prende a tema questo o quell’elemento, sia umano sia oggettuale, l’autore sta in realtà prendendo a tema una disfunzione del soggetto e una rispondenza non efficiente, non affidabile tra stato delle cose e metabolismo di quelle da parte dell’individuo. Più che verificare un pan-nichilismo – energia pure presente – si tratta di riconoscere questa non coincidenza tra individuo e vita in tutte le manifestazioni fenomeniche che gli vanno incontro. Ne è emblema Mangio merda, uno dei momenti migliori del libro, in cui la visione di uno youtuber masochista produce nel soggetto un mix contraddittorio di identificazione e senso di superiorità: «Lo youtuber sembra un bambino di quarant’anni / ha alle sue spalle delle teglie, / un lavabo e dei piatti da asciugare. / Sono migliore di lui.». Insomma, in Del Giudice riconoscimento ed estraneità si scambiano continuamente di posto, tanto sul piano gnoseologico-percettivo quanto su quello socio-morale; e questo è il tamburo battente in sottofondo alla psiche di Tamburo. (Antonio Francesco Perozzi)