Premio Bologna in Lettere 2024
Sezione C – Poesie singole inedite
From the river to the sea
Yael Merlini
“Casa” è una delle parole più pronunciate e comuni, non solo nel linguaggio della quotidianità ma anche nelle letterature (la più frequente nei Promessi sposi, tanto per andare su un esempio nazionale). Ma è anche una delle più difficili. Da «capire» / «To understand». Da «reimmaginare» / «To re-imagine». E, cosa ancora più difficile, da «costruire» / «to build», trovando una via non insanguinata «tra il sacro e il profano» / «between the sacred and profane». Lo sa e lo dichiara Yael Merlini, segnalata all’ultima edizione del premio di Bologna in Lettere, autrice nata a Firenze e residente a Berlino con diverse raccolte poetiche al suo attivo, da In fondo al mare del 2015 a – appunto – Di casa in casa del 2023. “Casa” la si può cercare forse solo nell’ossimoro di acque secche o nelle profezie inintelligibili dei fondi di caffè, sorbendola da quella bevanda salata che fermenta «nel bicchiere dei ricordi». I diritti del restare o del tornare sbattono contro muri di paure-dolori-menzogne, lo spazio esplode lasciandosi seminati intorno i detriti di quel sogno combusto e inerme che è la poesia. Per questo i testi di Merlini hanno un andamento liturgico, modulandosi su una insistenza anaforica («because I need» / «perché ho bisogno»; «it’s time» / «è tempo»; «let us assume» / «supponiamo») che scandisce un accumulo di elenchi, intesi a fare chiarezza là dove c’è l’oscuro e pienezza là dove regna la perdita. Nei suoi versi latita un residuo di perturbante, eccetto forse in quegli «occhi sotto il pavimento» («eyes under the floor») che chissà cosa possono vedere se non la polvere scricchiolante del rimosso, le ossa inquiete dei mal sepolti, le membra stipate e contorte dei nascosti dai rastrellamenti. Si esperisce piuttosto un fluire senza inciampi, correlativo onirico e contrario della realtà con cui si confronta, che con sicura efficacia musicale compensa la regolarità dell’iterazione tramite l’alternanza di timbri chiari con timbri scuri (come, per esempio, «because I need to hear» seguito da «the song of olive» o «because I need to listen» seguita da «hold ancestral stories») e dei versi lunghi del primo testo con quelli brevi successivi (si consideri «because I need to breathe in the scent of orange fields in which we lose ourselves in lovemaking» a fronte dei trimetri giambici «we are not familists» o «and no displacement plan»). Centrale per l’equilibrio dei testi è anche il modo in cui è attivata in chi legge una cautela presupposizionale riguardo all’interpretazione dei referenti di pronomi personali e aggettivi possessivi. Se in «non voglio parlare delle nostre case macchiate di sangue», «nostre» si riferisce all’ascendenza ebraica dell’autrice, e in «né voglio parlare delle vostre strade piene di frammenti di vetro e di mobili esplosi», «vostre» sta per «di voi palestinesi», allora «perché ho bisogno di parlare del profondo amore che entrambi nutriamo per questa terra» significherà «noi, ovvero i nostri due popoli»; quel «we» non avrà un senso di identità nazionale. E tale presupposizione si estenderà ai versi successivi: «it’s time to make our way home» / «è tempo di tornare a casa». Noi, entrambi. Perché la poesia si polverizza nello scontro con i muri. Di fronte a ogni violenza esclusiva – che sia delle azioni o del linguaggio – viene da dire Mesarvot. Plurale femminile. Noi (donne) ci rifiutiamo. (Maria Luisa Vezzali)