Premio Bologna in Lettere 2024
Sezione B – Raccolte inedite
La rappresentazione poetica dell’interiorità e dei suoi intricati meandri attraverso il paesaggio ha una tradizione ricca e consolidata che non può non richiamare alla mente nomi di statura monumentale, da Leopardi a Montale, a Ponge, a Zanzotto, a Jaccottett, poeti per i quali l’esperienza del paesaggio è – pure con i punti di equilibrio differenti che non ci sfuggono – esperienza di estraneità e fusione-diffusione, scoperta di un mondo indifferente ai significati umani e smarrimento di sé dentro un abisso insondabile, cognizione e sentimento dell’immensità e del limite, di ogni limite, compreso quello del linguaggio: può infatti la parola poetica riuscire a dare conto di un limite che è anche il proprio e, insieme, di tanta immensità che la incalza e le sfugge senza requie?
Sul solco di questa tradizione sembra porsi in modo convincente La diga evocata da Sandro Pecchiari, diga che nella mente di ognuno, tanto quanto nel paesaggio dolomitico esplicitamente individuato nella raccolta, si incastona come elemento di realtà, di tragica concretezza, ma insieme a tutto un portato simbolico di artificialità che viola e sfregia e sconvolge lo spazio naturale, col suo drammatico gioco di forze e controspinte, di contenimento e di incombenza minacciosa, di devastazione, di morte: l’argine e la sua fatale insignificanza, lo specchio di luce della superficie e l’ineludibile oscura opacità del fondale; ma anche la vanità e la smisurata piccolezza, la stretta contingenza di ogni ordine che tenti di istituirsi in contrapposizione all’ordine naturale, di ogni tentativo di addomesticare ciò che addomesticabile non è, di opporre ogni altro strumento umano che non sia l’innocenza di un puro guardare, che non sia il saper vedere, il voler vedere, per trarne meraviglia, coscienza della propria ignoranza, e infine conoscenza, profonda e autentica.
La diga di Sandro Pecchiari è una silloge breve il cui respiro poematico, legato a una consistente compattezza tematica e stilistica, offre misura della ricerca e del sorvegliato lavoro compositivo del suo autore: la calibrata ricorsività lessicale, la variazione, il refrain straniante delle battute shakespeariane (we split, we split, farewell!) che punteggiano i testi, conferiscono drammaticità a una trama che procede in una duplice direzione, quella verticale dell’ascesa e della discesa in sé stessi, e quella orizzontale del naufragio che precede e prepara un rinnovato, indifferente equilibrio naturale, per quanto catastrofico, tragico, dal punto di vista umano.
Nella raccolta figurano trentuno testi preceduti da una eloquente citazione tratta da La tempesta di William Shakespeare, un esergo che orienta la lettura, la pre-dispone, le dà ordine e forma: alla voce di Miranda, che nella seconda scena del primo atto esorta il padre Prospero a placare gli elementi che lui stesso aveva scatenato, le acque selvagge, alla passione della fanciulla che per antonomasia è wonderful, meravigliosa e piena di meraviglia, così come è piena di compassione e di pietà, Pecchiari sembra affidare un richiamo alla sospensione meditativa, compassionevole nel senso più pieno, un richiamo vitale alla partecipazione empatica, preludio alla prensione poetica del mondo e quindi, in definitiva, a un nuovo sguardo, a un diverso guardare, come lo stesso nome di Miranda suggerisce.
Tra i doviziosi riferimenti alle presenze dell’ambiente montano – flora, fauna, in un rincorrersi di tonalità cromatiche, olfattive, sonore – la presenza umana appare talora distante e tuttavia incombente, mediata dal rumore di uno strumento (per esempio, è il raschiare delle motoseghe come altrove è il motore acceso di un’auto che schizza all’indietro i sassi non guardando/questo risorgere incontrollato d’altro, ma del resto la diga, di per sé, immette già a priori nella contaminatrice artificialità dell’impronta umana sul paesaggio naturale) oppure evocata (i fuochi nelle stufe) tra gli elementi di un microcosmo che il lago rende rarefatti (il lago assume, diluisce, liscia…).
Il territorio è come sorvolato dallo sguardo poetico ma la ripresa dall’alto non è mera ricognizione: l’occhio sembra oscillare dal reale del paesaggio alla sua rappresentazione (le mappe la disegnano), tra il tentativo di comprendere ciò che si vede e, forse soprattutto, quanto resta irriducibilmente invisibile (in alto speravo di carpirne la ragione/spiegare il mondo attorno a un perno) e la spinta a trattenere le parole dopo la cancellazione delle cose (i nomi impallidiscono dispersi/reclamati appena dopo a sopportare il vuoto).
Sul piano formale, notevole il certosino lavoro sulla lingua che innesca i significati anche a partire dai suoni delle singole parole, e che vengono poi come squadernati in asciutte elencazioni di elementi naturali la cui funzione quindi non appare complementare, accessoria, al discorso poetico ma ne articola semmai il perno (questo che è un paesaggio/domani sembrerà eguale nei millenni), il punto dal quale scorgere la minima misura umana, l’essere minuscolo e transeunte dell’uomo (siamo stati una manciata di secondi), la cui vita è un attimo nel tempo delle ere geologiche, cruentemente riducibile in pochi tragici istanti al silenzio di un ammasso di oggetti che in un attimo perdono di significato, destinato al naufragio nei cambi inarrestabili. (Patrizia Sardisco)