Premio Bologna in Lettere 2024
Sezione A – Opere edite
Il distacco impossibile. Nota a Tande di Rosaria Lo Russo
Se Tande fosse un romanzo, lo potremmo forse definire un romanzo di formazione. È invece un’opera poetica, ed è quindi molto meno vincolata a requisiti di coerenza e continuità narrativa; eppure al suo interno le situazioni (almeno in apparenza) autobiografiche ci sono ugualmente, e la formazione pure. Se dicessimo che le situazioni sono raccontate, o, meglio, testimoniate, non asseriremmo il falso; ma meglio ancora sarebbe se le dicessimo proiettate. Una proiezione non di figure visive, come succede nel cinema, ma, per così dire, di figure di parole, parole che emergono dal passato, nella loro distinta materialità, in una sorta di flusso di coscienza che testimonia la varietà delle esperienze, esperienze prima di tutto di linguaggio, perché il quotidiano di un futuro poeta è costellato di espressioni colloquiali, tipicamente basse, ma anche, in misura comparabile, di letture poetiche, tipicamente alte. Tande, parola del linguaggio infantile, si rispecchia così in Dante, il nome del sommo poeta, e un nome che è già di per sé tutto un programma. Analogamente, nel flusso proiettato da Rosaria Lo Russo, l’alto e il basso si susseguono e si integrano l’un l’altro, a caratterizzare emotivamente quello che viene anche descritto – in una sorta di lunghi quasi non-versi, quasi prosa, che in almeno un paio di occasioni sfocia del tutto nella prosa.
Certo, così facendo, un velo di grottesco si stende su tutto, tanto sul semplicemente esperienziale quanto sul drammatico e sul tragico, con l’effetto di un distacco vagamente barocco, ma anche di un’enfatizzazione sghemba, che tradisce, con qualche ricercata contraddizione, l’impossibilità effettiva del distacco, l’impossibilità della freddezza che il distacco davvero comporterebbe. Qui tutto è caldo, invece, ma quasi come se i colori fossero diventati troppo saturi; e noi ci ritroviamo attratti e insieme ci ritroviamo respinti, e tutto ci sembra un gioco e insieme tutto fa paura. Ed è la lingua, la parola con le sue sonorità, a fare la parte del leone in questo spasimo, a trascinarci giù nell’infanzia, nell’adolescenza, con la continua sensazione che ogni parola stia citando qualcosa, basso o alto che sia, e che ci troviamo di fronte a un immenso, pervasivo collage, a un mosaico fatto di tessere irregolari, che non smettono di valere per sé mentre insieme valgono come ricordi, come proiezioni, come testimonianze, come racconto.
Pagina dopo pagina, situazione dopo situazione, si entra come in una liturgia, un grande pezzo di musica sacra. Benché tutto sia palesemente laico, quasi profano nella sua effervescenza grottesca, la figura della madre, da cui parte la prima sezione – Tande, appunto – dopo essere quasi svanita pagina dopo pagina, riappare nella seconda, Viamatris, trasfigurata in una sorta di allucinazione di Madonna. Adesso non c’è più il racconto, la proiezione: siamo precipitati dentro una sorta di litania, dai versi brevi, ossessivi, dove il miele, il sangue, le spine, senza perdere il loro carattere grottesco, sono carichi dei loro valori simbolici tradizionali, e la Madonna vi compare come attraverso un velo di devozione popolana, o forse attraverso un’eco di religiosità. Ma qui si crede, evidentemente, nel simbolo in sé e nella sua intrinseca potenza, molto di più che non a quello cui il simbolo tradizionalmente rimanda. Insomma, la liturgia sì, c’è, forte per quanto deragliata; la fede invece no, e la religione è magari non proprio negata, ma semplicemente esclusa, se non nella sua manifestazione umana, se non nelle sue semplici parole.
Via crucis, viamatris… Tande si conclude comunque con un de profundis, che non smette di essere intensamente tale nemmeno quando ne sembra la parodia. (Daniele Barbieri)