Premio Bologna in Lettere 2024
Sezione A – Opere edite
Per una strana coincidenza, ho iniziato a leggere Non possiamo continuare. Nove processi biofisici di Demetrio Marra lo stesso giorno dello splendido e incredibile Trilogia dell’area X di Jeff Vandermeer. In entrambi i casi, non sapevo cosa aspettarmi. In Annientamento vediamo una biologa, all’inizio del libro, scendere dentro una torre che emette una strana fosforescenza e delle strane vibrazioni; strane parole dal sapore biblico sono incise sulle mura e sembrano vive. La sua collega non vede le stesse cose che vede lei; la questione della percezione di sé e del mondo è quantomeno strana, nell’area X, e cambia continuamente, provocando nel personaggio principale non solo inquietudine ma un reale cambiamento fisico, che decide di non comunicare alle colleghe. Ecco, quando ho letto Non possiamo continuare io ho immaginato Marra nella torre (nella torre ci siamo tutti, va da sé, anche se facciamo finta di farci andare bene tutto) che progetta la difficile operazione di trasporre il conflitto nella poesia. Dico conflitto e mi vengono in mente tutte le inquietudini in cui siamo immersi tutti, anche noi quasi-cinquantenni, anche se stranamente nella nostra poesia spesso di queste inquietudini (il lavoro, i cambiamenti climatici, i conflitti sociali, le disuguaglianze, le paure della fine) si fatica a trovare traccia. Forse perché siamo lirici? Mi piace invece l’idea di una lirica che si sporca con la realtà: è successo, quindi si può fare (com’è stato bello a vent’anni leggere Giudici, la sua mestizia da impiegato-poeta, la certezza del fallimento). Il rischio più evidente, in questo tipo di operazione, è quello di un volontarismo che mette tra parentesi la sorpresa conoscitiva che c’è sempre nella poesia. Invece Marra evita brillantemente il rischio, usando la forma del long poem con grazia e spregiudicatezza, ma soprattutto usando sapientemente le interruzioni di verso, l’interpunzione, i cambi di pronome (“va in bagno si / mi guardo allo specchio”), e soprattutto una forza quasi sapienziale che deriva dalla rabbia e che produce, libera linguaggio direi: “e poi a un punto parliamo a vanvera di umano, se ci siamo dentro, e postumano”. Appunto, non parliamo a vanvera, cerchiamo di usare il linguaggio non solo in modo da produrre formule efficaci che descrivano il mondo in cui ci troviamo, ma anche in modo da produrre agency, cioè da cambiare il mondo quanto basta per poter andare avanti, per poter continuare, anche se non sappiamo verso dove. Ho chiesto alla mia amica Giuliana quale potrebbe essere una definizione di agency; Florian Fuchs, lei mi ha detto, la definisce come un’eredità del topical speech, cioè del discorso fatto per convincere, cioè per agire sulla realtà, opposto al discorso retorico; secondo Fuchs ciò che resta di quel tipo di discorso lo troviamo nelle forme brevi, ovviamente ibridate e confuse con altre forme, come il proverbio e l’aforisma, che danno al discorso memorabilità, e questa è forse la cosa che più mi ha colpita del libro di Marra insieme al rifiuto di posizionarsi, di rifiutare l’oro che luccica del prestigio (?) poetico. Non è un gesto comune, ed è un gesto politico che apre discorsi, prefigura altre azioni (sarà vero che l’azione politica è in contrasto con la pratica letteraria? forse dipende da quanto narcisismo mettiamo nelle nostre poesie), e lascia aperte le domande più che dare risposte. (Marilena Renda)