Venite sintesi di cadaveri, venite. Senza bambini
o neonati, venite. Qui ci vendono oltre l’amore
e oltre l’amore le carni e morire.
Enzo Campi
Ligature e animalìe. Per un film sulla crudeltà.
(Uno sguardo su Legati i maiali di Teodora Mastrototaro, Marco Saya Edizioni, 2020)
Un’opera divisa in due parti: da un lato il punto di vista del macellato e dall’altro lato il punto di vista del macellatore. Se questi due punti di vista fossero due obiettivi avremmo due diverse inquadrature di una stessa scena, quella oggettiva di chi produce l’attacco e quella in soggettiva di chi subisce l’attacco. La prima risulterà chiara e nitida, iperdefinita, e non lascerà adito a dubbi sull’intenzionalità dell’atto. La seconda potrebbe risultare velata, di bassa definizione, addirittura sfocata, come a voler rappresentare l’ansia e la paura di chi si sta consegnando alla morte. Questi due obiettivi, oppositivi e contraddittori, rappresentano la metafora della vita che la stessa autrice definisce: “lasciata a seccare sull’osso”. C’è una ragione specifica per la quale ho inteso instaurare questo parallelismo. Alcune delle poesie presenti nella raccolta, in quanto scene compiute in sé, potrebbero essere considerate come sequenze di una sceneggiatura. Si vedano almeno le poesie alle pagine 51, 58, 60, 67, 69, quella a p.39 che sembra quasi una sequenza di un film surrealista degli anni ’20: “Lo storditore punta la pistola/ all’altezza della macchia a forma di stella/ sulla fronte del cavallo in fila./ L’occhio che schizza dalla cavità orbitale/ lascia una scia luminosa di plasma/ visibile per pochi secondi./ La stella è diventata una cometa./ Lo storditore esprime un desiderio/ ammirando quel corpo celeste morente/ che attraversa un pezzo di cielo.”, e quella a p.52 che qui riporto:
Gli occhi dei deportati sono l’unica zona
visibile attraverso le lastre del carro bestiame.
Il cielo si fa strada dove trema il sole
tra quei volti tanto densi da sprofondare
l’ultimo spazio.
Sul retro Trasporto Animali Vivi,
i fanali anteriori tendono al cancello di entrata,
i maiali stipati spingono il muso che penetra il culo
di un compagno, il culo appesta l’aria per la paura.
Il cielo è di un rosso sventrato.
Gli animali scendono nella zona di scarico del mattatoio,
l’ultimo annusa l’aria che puzza di carne,
riconosce l’odore di chi lo aveva stuprato.
Un vero e proprio film sulla crudeltà, dove le ligature rappresentano, idealmente, l’intero complesso delle operazioni macellatorie e le animalìe sono divise in due categorie, quelle inflitte e quelle subite. Due diversi gradi di intensità quindi, quello dell’indifferenza e quello del dolore, due diverse partizioni di uno stesso spazio, quello del mattatoio, dove da un lato vive, per così dire e con il beneficio di inventario, l’arealità (per quanto mefitica) del macellatore e dall’altro lato si conclama l’asfissia del macellato. A questi due gradi d’intensità corrispondono due diversi tipi di respirazione, in un certo senso entrambe liberatorie: la liberazione di chi infligge il dolore e la morte e la liberazione di chi pone fine al proprio dolore e alla propria prigionia attraverso la morte. La situazione, dal punto di vista filosofico, è complessa. Bisogna far scendere in campo diversi fattori (determinazione, responsabilità, abbondanza, abbandono, liberazione, massificazione, sacrificio, dono, perdono, addio, lutto, ecc.) e diverse tipologie di pensiero che a partire dalla fenomenologia (anche trascendentale se vogliamo, perché il passaggio dalla vita alla morte entra di diritto nel registro delle trascendenze) passando attraverso la filosofia del negativo arrivano fino alla decostruzione. Infliggere la morte per porre fine al dolore, alla prigionia o a condizioni di vita deprecabili potrebbe essere considerato come un dono. Ma è un dono che prefigura, almeno idealmente, il lutto ancor prima che esso si verifichi:
Madre tu che insegui il mio cadavere in prigione
portami del latte – che io ne senta l’odore –
perché mi fanno cieco – ed è giusto che tu sappia –
che ogni tuo vitello è diventato un necrologio
scritto sulla pietra ancora prima di morire.
Quando l’asino di Zarathustra dice «sì», la sua affermazione è un sinonimo di assumere un peso, di portare un peso. Portare la soma è un po’ come avvicinarsi progressivamente alla morte, alla propria morte, che equivale al peso della propria vita, perché la vita dell’animale esiste solo in funzione della morte. E il percorso che egli compie per arrivare alla fine (portare in giro il peso che lo avvicinerà sempre più alla morte) esiste solo in funzione di questa risoluzione. Quando non riuscirà più a portare nessun peso, smetterà di dire «sì» e verrà semplicemente eliminato. L’animale, in senso generale, è costretto a dire sì per il solo fatto di sopravvivere: egli dice sì a chi gli dà da mangiare, anche quando vede morire i suoi simili, anche quando solo per bere è costretto a farsi del male e quindi a subire, ancora una volta, il dolore: “Tra le sbarre della gabbia cerco acqua/ che col labbro che mi taglio è mista a sangue”.
L’animale è conscio che quel cibo lo porterà alla morte. Quindi quel «sì» contiene un «no». Si afferma come un no, allo stesso modo del «no» dell’Iperione di Holderlin. È un sì al negativo, e allora la sua affermazione risulterà, a tutti gli effetti, una negazione. Una negazione che implica hegelianamente una potenza, dialettica e distruttiva se vogliamo, ma comunque rivolta a una nuova creazione, a un supplemento di vita che avviene, nel caso specifico dell’animale, solo dopo la morte, in quanto il cadavere, una volta trattato, diviene cibo per gli umani. Per restare con Hegel, se è vero che la vita dello spirito sopravvive alla morte, vuol dire che lo spirito dell’animale si trasferirà in chi si ciberà del suo cadavere raggiungendo, per così dire, uno status di appagamento (“L’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza” [Hegel]). Ma la realtà filosofica che andrebbe approfondita, al di là dell’opinabile fenomenologia dello spirito, consiste nel fatto che gli umani si cibano di cadaveri. La questione è ontologica più che fenomenologica. E l’interrogazione che verrebbe spontanea suonerebbe così: un umano che si ciba del cadavere di un animale diviene egli stesso animale, alla stregua di una iena che si ciba di una gazzella? L’atto di entrambi è dettato dalla sopravvivenza, ma l’animale non ha scelta mentre l’umano può semplicemente cibarsi con altro. È questo il messaggio, è questa la morale che pervade e percorre tutta l’opera di Mastrototaro. Ma, ritornando alla fenomenologia, c’è, in quest’opera un’urgenza del «voler-dire» che potrebbe, in teoria, anche non curarsi della forma e concentrarsi solo sul contenuto. Mastrototaro invece sembra voler donare alla forma quello che Derrida chiamava “centro di evidenza”, per far sì che la forma conferisca un valore aggiunto al contenuto. Così il contenuto non viene solo descritto ma viene messo in forma poetica. Un poetico che sfiora ripetutamente il poematico. Nessuno di noi, lettori, avrebbe difficoltà nel considerare quest’opera come un vero e proprio poema esistenzialista e animalista. Parole potenti (così come le definisce Laura liberale in una sua nota critica sull’opera), di difficile accoglienza, perché, e qui cito testualmente, è “stata da tempi immemorabili orrendamente trasgredita la legge dell’alleanza”. Ma l’alleanza tra uomo e animale, storicamente, si può dare solo in termini di sottoposizione della servitù in favore della sovranità, solo in termini di utilità: il cane e il gatto che procurano compagnia all’essere umano o il bue e l’asino che tirano l’aratro o il maiale e il pollo che procurano cibo sono figure equivalenti, sia dal punto di vista semantico che ontologico. Come ci dice Nietzsche, l’alleanza si può dare solo tra animale e animale. Si pensi a quella tra l’aquila e il serpente. Ma anche questo tipo di alleanza è finalizzata alla morte. Difatti prima o poi il serpente stringerà le sue spire intorno al collo dell’aquila. La specie animale vive per e con la morte. Forse è questa la vera alleanza, quella tra l’animale e la morte. Solo così ci si pratica nei registri dell’abbandono, del sacrificio, della liberazione e del lutto. Di contro e similmente, l’essere umano non può che stringere alleanze con se stesso e con il sistema, produttivo ma crudele, che le sue azioni continuano a foraggiare.
Ancora cosciente mi rivolti vivo nella vasca,
l’acqua bollente rende tenera la morte.
Un paio di minuti è il tempo che ci vuole
per far puzzare il cielo.
Il porco dopo di me non sa nuotare,
gli basterà un secondo per farsi trasformare
nel bianco del carcame scolorito.
Un braccio meccanico mi spinge giù in fondo
nel mare sospeso di rosso
L’uomo è dunque anch’esso un animale, sostituisce il dialogo con l’azione: stordisce, colpisce, spara, decapita, macella e poi si ciba con quello che è, a tutti gli effetti, uno scarto. Lo scarto di cui si parla è insieme ontologico e strutturalista. Mastrototaro lo descrive, progressivamente, in tutti i suoi particolari, in tutte le sue parti, sviscerando tutto il sistema.
Prima di essere recisa, lo stordimento.
Il proiettile entrato dentro il cranio
mi ha stordito – non mi ha ucciso.
Mi guardi mentre annaspo nell’oscuro
dei miei passi. Prima di crepare
nella severa danza sono corpo controllato
– sempre in equilibrio sulla punta della lama.
Per te sono più bella così: scuoiata immobile.
Bisogna porsi delle domande che riguardano la struttura di quest’opera e quindi la struttura del sistema che in essa viene denunciato. La morte subita dall’animale è desiderata, in quanto liberatoria? La morte inflitta dall’uomo è desiderante, in quanto l’uomo potrebbe desiderare di uccidere? Non si tratta forse di un gioco, al massacro (“Giochiamo alla cavallina?/ Io muoio te tu muori me,/ uno addosso all’altro per cordoglio”) di ruoli e di posizioni, di servitù e sovranità? L’abbondanza di un allevamento intensivo, al di là della massificazione, non consiste forse nel rincorrere incessantemente la propria posizione, quella che può permettere un minor grado di asfissia? E questa posizione, una volta raggiunta, può rivelarsi liberatoria? Claude Levi-Strauss ci ha insegnato che l’antropologia non può esaurirsi alla sola analisi del genere umano. Se l’uomo prima di divenire tale era poco più di un animale, nulla ci vieta di pensare che alcuni animali possano divenire umani, sempre col beneficio d’inventario e in determinate situazioni (posizioni?). Entrambi quindi sarebbero potenzialmente in grado di dialogare tra loro. L’essere umano può provare vergogna o rimorso nell’esercizio delle sue funzioni? Sono forse questi alcuni dei punti di partenza che hanno fomentato la stesura dell’opera?
Io non uccido animali, non ne sarei capace e nemmeno desidero farlo, però me ne cibo. Sono dunque un animale anch’io? La differenza tra me e un macellatore consiste nel non conoscere tutto quello che c’è dietro, tutto quello che avviene prima che l’animale diventi cibo. Il compito di Mastrototaro è proprio quello di metterci a conoscenza dell’intero processo produttivo (se di produzione si può parlare), del sistema di crudeltà che regola, impietosamente, l’intero processo. Qualsiasi sistema, secondo la regola saussuriana, è strutturalista e la crudeltà, nel nostro caso specifico, è ciò che permette al sistema di esistere e di confutare la regola e il metodo. La crudeltà è una posizione che, una volta raggiunta e consolidata, ci permette di finalizzare uno scopo. Non c’è nulla di simbolico in tutto ciò, checché ne pensi Lacan. Non si tratta di sdoppiare, sempre e comunque, per far venire a galla il desiderio e l’immaginario. L’ordine di Mastrototaro è reale, non simbolico (“Il macello non è un personaggio di finzione”). Per questo il double bind dell’autrice non contrappone il reale e l’immaginario, ma compie un’operazione di fusione tra due diverse realtà: quella del macellatore e quella del macellato, calandosi prima nei panni dell’uno e poi in quelli dell’altro. Il suo non è uno sdoppiamento, si tratta piuttosto di una sorta di proiezione rovesciata che le consente di restare letteraria e poetica nonostante la crudeltà imperante del tema trattato. Ci sarebbe da evidenziare che il double bind qui esposto oppone e insieme coagula il «doppio colpo» alla «doppia colpa», quella del macellatore che dona la morte e quella del macellato che, in un certo senso, perdona chi gli dona la morte, perché la finalizzazione della sua esistenza è proprio la morte, anche se essa avviene in un sistema strutturalista di costrizione. Perché alla base c’è una «doppia obbligazione» che costringe sia l’uno che l’altro a servire il sistema. Certo, nell’intersoggettività tra queste due obbligazioni rinvengono le teorie lacaniane, facendoli divenire entrambi «soggetti» il cui significante implicito è sempre dettato e condizionato dalla morte come principio di utilità, ed è quindi «spostato» verso il divenire. Ma il divenire è qui imminente e immanente. Non si riesce ad andare tanto lontano. La morte accompagna ogni gesto, ogni pensiero, ogni idealizzazione. Dovremmo parlare di un’opera materialista, e quindi ancora una volta strutturalista e, aggiungeremo, strutturale e consequenziale, perché si sviluppa attraverso varie fasi a cui corrispondono varie intensità. Abbiamo già accennato all’indifferenza e al dolore, ma potremmo aggiungere svariati altri gradi di intensità, per così dire, differenziale in un sistema o meglio in una catena di rapporti, anche interscambiabili, come se fossero pervasi da una sorta di «doppia necessità». In questa ottica si situa la questione, sottile e insieme abnorme, dello scambio e del baratto: il macellatore concede all’animale di porre fine alla sua prigionia e il macellato concede all’uomo di prendersi la propria vita. Così il double bind del dare-ricevere diviene un dare-prendere. Perché strutturalismo e materialismo, rispolverando Deleuze, viaggiano sulla stessa linea, occupano la stessa posizione, “la posizione del morto”, la posizione della morte che avviene attraverso la deposizione dell’animale. Ma così facendo, cioè deponendosi, l’animale raggiunge la sua posizione. È un circolo vizioso che prefigura l’eterno ritorno dell’aquila che strozza il serpente e l’eterno ritorno del macellatore che uccide l’animale. Ma, attenzione, anche il macellatore e il macellato occupano la stessa posizione perché entrambi si occupano e si pre-occupano della morte in quanto viventi per quanto, secondo la tesi heideggeriana che un “esistente” non debba necessariamente essere anche un “vivente”, potremmo far slittare l’animale nel campo degli esistenti considerando la sua animalità (come essenza) e non il suo essere animale in quanto tale. Tutto questo perché la sua essenza tende a svilupparsi in funzione della morte in una fascia temporale breve e limitata. Allora il macellatore vivente con il suo atto elimina l’essenza del macellato esistente. E non solo: assume in sé l’essenza dell’animale proprio in virtù del suo atto, che è sempre quello di donare o di infliggere (dipende da dove parte e fin dove può arrivare lo sguardo del punto di vista) la morte.
Abbiamo accennato a diversi fattori filosofici che rendono la situazione complessa, articolata e finanche sottile, soprattutto in un rapporto di causa-effetto. Proviamo a ripercorrerli e amplificarli, innestando la presenza di altri fattori. Se un macellatore si tirasse fuori, ontologicamente, dalla catena di montaggio, dalla necessità di una «produzione», se quello stesso macellatore si identificasse con l’animale, se infine riconoscesse di essere egli stesso un animale, dopo aver «donato» la morte a quell’animale, ovvero a se stesso («ospitalità»), non gli resterebbe che celebrarne il funerale («testimonianza»). Celebrare il funerale dell’animale è un po’ come donare il «perdono» a se stesso, e quindi eludere («responsabilità») la valenza cruciale («autorizzazione morale?») di essere deputato all’esercizio della crudeltà. Petrosino, nell’introduzione a Donare la morte di Jacques Derrida, parla di una sinfonia e di una melodia: “[…] gli scritti del filosofo francese sono molti, e per alcuni critici anche troppi, così come tanti e diversi sono i temi e gli autori con i quali egli continua a confrontarsi, eppure al fondo di una sinfonia così complessa e articolata non si può non riconoscere il risuonare di una stessa melodia (S. Petrosino, L’assioma assoluto, prefazione a J. Derrida, Donare la morte, Jaca Book, 2002, p.7). In un contesto così strutturato mi sovviene la splendida e toccante performance L’albero delle bugie di Monalisa Tina al Mattatoio di Roma, dove la performer entrava in una sorta di sintonia mistica con l’animale, diveniva ella stessa un animale strisciando in una lenta processione come in una sorta di avvicinamento al proprio destino. Aveva legato alle proprie caviglie, tramite grossi collari di ferro, una serie di campanacci che segnalavano la sua presenza, la venuta in presenza (come non ricordare Nancy e la venuta in presenza come “fantastico fenomeno”?) di una figura, la figura della «prossimità» alla morte. Alla fine del percorso (calvario, supplizio) la performer intonava un canto, sia sacrificale che liberatorio, sia doloroso che catartico. Ed è in quel canto (sinfonia della crudeltà, melodia della metamorfosi) che si celebra il funerale, che si «dona» la morte, che ci si concede il «perdono» per aver inflitto quella morte avallata dal sistema della «produzione». Nel colpo di scena finale l’animale-umano, dopo aver celebrato il suo stesso funerale, bacia sulla bocca tutti gli altri animali-umani presenti al rito. Ecco allora che quella stanza si trasforma nella gabbia di un allevamento intensivo o nel cassone di un camion dove la forzata vicinanza («prossimità») invece di produrre lo stupro cui accennava Mastrototaro produce la «liberazione». In poche parole attraverso un rito fisico si veniva a produrre una sorta di comunione elettiva. Mastrototaro non performa, non con il suo corpo almeno. Mette al lavoro la voce. In un certo senso è come se cantasse la sua melodia, come se eseguisse la sua sinfonia, sia quando si cala nei panni insanguinati del macellatore, sia quando indossa la pelle scuoiata del macellato. Drammatizza le sue figure crudeli per porci delle domande, per indurci a una riflessione plurima. Così facendo, come una sorta di araldo medievale, sancisce e conclama il suo editto di denuncia: “Ti sanguina il guanto, uomo, nella cavità arida della parola cadavere”. E non è tutto, perché l’esistente è anche un ente. Abbiamo già accennato all’essere e al non-essere e spero che si sia compreso che la doppia coppia dare-ricevere/dare-prendere mette in gioco, nuovamente, la questione dell’essenza. L’umano pensa “io sono”, io sono proprio perché penso. Ma cosa sono? Un uomo o un animale? E cosa penso? Di essere o di non-essere? L’interrogazione è polistrutturata perché esercitando il potere in modo violento il pensiero non sempre è univoco. C’è uno spiraglio per il dubbio. Allo stesso modo, e quindi diversamente, di Descartes che pensava l’animale-macchina, noi potremmo pensare a un uomo-macchina che esegue senza pensare. Ma se non pensa non può neanche essere. Un non-essere non pensante che assume su di sé il ruolo (e la figura semantico-ontologica) di «depositario della morte». Una contraddizione in termini: un essere non pensante che pensa. Ma la questione non si esaurisce qui. Di quale macchina stiamo parlando? Non certo una macchina desiderante perché l’azione accade e quindi dovrebbe annullare il desiderio. Forse una macchina libidica, nel caso l’azione provochi l’appagamento nel risolvere il desiderio represso. O una macchina aporetica, avvinta da un dubbio, per così dire, etico. E l’animale? Al di là della macchina traumatica che lo avvolge nelle sue spire, l’animale imita l’uomo, nel bene e nel male, nel dare e nel ricevere, nel dare e nel prendere. Si sente spesso dire “quel cane somiglia al suo padrone”. Certo è una frase fatta, ma cosa dovremmo pensare del pappagallo che tenta di parlare come il suo padrone ricalcandone e ripetendone le parole? Inoltre ci sono animali selvaggi che imitano l’uomo nelle tecniche d’attacco verso altri animali, e animali, per così dire, pacifici come i cani che controllano un gregge di pecore. Ecco: l’imitazione e il controllo. Oltre a essere una macchina riproduttiva, l’imitazione è una sorta di parola-chiave, una medaglia verbale. Cosa pensare delle scimmie che imitano i movimenti dell’uomo? Ma l’uomo discende proprio dalla scimmia. E allora la scimmia non imita l’uomo ma se stessa. Quindi, allo stesso modo dell’uomo, potrebbe pensare “io sono proprio perché penso di essere uguale all’uomo”. E se penso, significa che sto eseguendo ciò che la mia natura mi induce a fare. Il cogito cartesiano, il “penso dunque sono” potrebbe diventare “uomo quindi animale” o “animale quindi uomo”. Sono io quell’animale o sono io quell’uomo che, da capo a coda o da coda a capo, in entrambi versi e in entrambe le direzioni, mi ricalco doppiandomi nell’altro? Il fenomeno è anche percettivo. Mi rispecchio nell’altro, animalizzandomi nell’umano o umanizzandomi nell’animale. Buco lo specchio per rimanere “io” pur essendo altro. Buco lo specchio per rendermi simile all’altro. Non stiamo parlando di un vero e proprio specchio, ma del possibile riflesso tra le pupille dei due elementi che concorrono all’espletamento del rituale. Per questo l’opera di Mastrototaro è divisa in due parti idealmente contrapposte ma speculari, perché lo sguardo dell’uno si rispecchia in quello dell’altro: l’animale vede la sua parte umana nelle pupille dell’uomo e l’uomo vede la sua parte animale nelle pupille dell’animale.
In questa ottica Artaud ne ha ben donde di vedere nello specchio i “topi dell’assoluto” riflessi nelle sue pupille. E Carmelo Bene è cento anni avanti quando, nel Don Giovanni, divide il pasto col suo cane che addirittura è sopra il tavolo e mangia dallo stesso piatto del suo padrone. Perché qui subentra una protesi, un supplemento decisamente rilevante: quello che si pasteggia è un altro animale (nella fattispecie un pollo). Sia l’uomo che l’animale si cibano, insieme, di un altro animale. Chi dei due è il vero animale? E chi dei due imita l’altro? Qui si passa da una macchina delirante (quella artaudiana) a una macchina traumatica che induce l’uomo e l’animale a consumare il pasto-di-sé essendo entrambi, per così dire, «umanimali».
Una mosca si posa sul capezzolo di una mammella asportata,
nella sala vuotatura. Una mosca strofina le zampe
sugli escrementi evacuati da un toro, nel box di sosta.
Una mosca affonda nell’occhio schizzato dalla cavità orbitale
del cavallo in fila, nella corsia di stordimento.
Ognuno limita la propria zona di morte, ma tutte sono d’accordo
quando si tratta di sorseggiare il sapore agrodolce del sangue
mentre l’aroma fruttato dei batteri si combina con la carne
decomposta. Ed è subito profumo, nella sala
delle frattaglie.
Teodora Mastrototaro, drammaturga e poetessa, è nata a Trani nel 1979, vive a Roma. Ha esordito con la raccolta Afona del tuo nome (La Vallisa, 2009), tradotta dal poeta americano Jack Hirschman con il titolo Can’t voice your name (CC. Marimbo, 2010). La sua ultima pubblicazione è Legati i maiali (Marco Saya, 2020), finalista al premio Arcipelago Itaca per la sezione Raccolte Inedite, Vince il Premio Speciale Del Presidente Di Giuria al concorso Bologna In Lettere 2021, Segnalazione al premio di poesia e prosa Lorenzo Montano 2021. Il suo racconto Il Mattatoio è stato pubblicato sul Magazine radicale internazionale Menelique. Il suo monologo Lettera a mia madre è stato pubblicato all’interno del libro Difendi il pianeta a tavola .