Colpi di Voce – Le note introduttive – Maria Laura Valente vs Alessandro Anil

Alessandro Anil

 

«Un individuo solo e l’infinito sono in termini uguali, degni di guardarsi a vicenda, ognuno dal proprio trono». L’essenza di questo assunto che Rabindranath Tagore affida alle sue Visioni bengalesi pervade intimamente la poetica di Alessandro Anil (formatosi, nella prima adolescenza, alla scuola del poeta di Calcutta), come vividamente traspare dalla silloge inedita Terre dei ritorni, articolata, in guisa di poemetto, in testi poetici autonomi ma intrinsecamente interconnessi, nei cui versi debordanti, che procustianamente tendono alla prosa poetica, si dipana una sintassi piana e sobria, in cui persino dagli enjambement si spicca un volo misurato e lento; vi si accompagna una selezione lessicale improntata alla fresca purezza di una comunicazione che sgorga immediata e si offre limpida a placare la sete primigenia e figurale dell’esplorazione e della conoscenza di sé e dell’altro da sé. «La prima cosa che dio ha creato è la sete, il principio del movimento». E il movimento di ricerca si fa parola proiettiva, protesa verso l’infinito, verbalizzazione che assume inizialmente, solo in apparenza, i tratti del monologo («Non è necessario che mi ascolti. Non è importante.»), per farsi subito dialogo dell’io intessuto con un’evanescente interlocutrice (l’«Amica mia», delicatamente evocata in apostrofe), il cui ruolo di ricevente unica, però, trasmuta gradualmente in canale, in medium multidirezionale che spalanca i confini comunicativi e volge ogni interrogativo all’universo. Sin dal verso di apertura, il rapporto dell’io autoriale con l’alterità è un viaggio interiore che si sviluppa lungo la duplice direttrice dei bioi paralleloi, dove, secondo i crismi dell’apart together, le vite parallele sono destinate a costeggiarsi, demandando la reciproca fusione alla comune tensione all’assoluto («Le due rette parallele/di un binario si uniranno, comunque, nell’infinito»). Eppure, l’anelito alla compenetrazione con l’altro (e, per suo tramite, con il tutto) è palpabile e pervasivo, un leitmotiv in forma di eco che attraversa il corpus dell’opera, componimento dopo componimento, scandito da un’invocazione ai limiti del paraclausithyron: «Lasciami entrare». Il dialogo-monologo di Anil fluisce ininterrotto, la parola si fa fiume e «il fiume/misteriosamente dà forma al tempo». Un tempo circolare, in cui inizio e fine, nascita e morte si confondono e confondono («È bizzarro che il nostro viaggio inizi quando ogni cosa sta tornando/al riposo»; «La morte è sempre nell’inizio»). L’io autoriale scorre nel flusso inesausto di questo tempo ciclico e si fa uruboro a sua volta: osserva l’altro (e, per suo tramite, il tutto) e, in virtù di interferenza empatica, si compenetra con l’oggetto di osservazione, imprimendo nuova spinta al movimento (come traspare, con intensità vibratile, nella chiusa dell’excursus chirognomico del componimento V: «Osservo le tue mani e so cosa devo fare»), anche quando il moto si fa onda alta che si involve su se stessa («come osservare/la fine, senza terminare in essa?»). Tuttavia, anche se «niente, niente/resterà, solo oscurità, sete e un vuoto primordiale», non c’è annichilimento nella fine, solo nuovo principio di movimento: «se noi siamo, siamo polvere e la polvere risorge sempre». (Maria Laura Valente)