Per partire col piede giusto bisogna citare un passaggio di Plinio Perilli tratto dalla prefazione che apre le porte a quest’opera, o meglio che inaugura la saga, perché è di saga che si tratta, quasi un gioco di strategia o, se preferite, una battaglia. Se si considera l’accezione del gioco allora il giocatore, nel nostro caso specifico la giocatrice deve essere considerata alla stregua di un baro perché distribuisce le carte sempre a suo favore procurando scompiglio e stupore tra gli altri giocatori. Se si considera l’accezione della battaglia allora siamo alla presenza di un generale abbastanza malleabile, oserei dire permissivo, perché impartisce sì gli ordini ma consente alle truppe di fuggire oltre le linee prefissate. Ma l’autrice è consapevole del fatto che non c’è nessuna battaglia da combattere, e che tutto deve non dico risolversi ma sfinirsi lungo le line del gioco. Certo, esiste anche il gioco al massacro, e quindi gioco e guerra potrebbero essere considerati come la medaglia e il suo rovescio, come due facce di una stessa entità, che devono esistere simultaneamente proprio per permettere lo sviluppo della saga. Prendendo per buoni questi presupposti, mi sembra evidente che la saga sia circolare, che qualcosa ritorni ri-praticandosi nella sua stessa ri-definizione. Ed è proprio in questo che consiste la strategia. Le truppe vengono distribuite su più linee, mai univoche ma sempre interagenti. Così ogni affiancamento è anche una penetrazione, così ogni affondo è anche una ritirata, così ogni schiaffo è anche una carezza. In questa scrittura non c’è un affresco ben preciso e delineato ma , citando l’autrice, uno specie di schizzo col carboncino, come quando nella commedia dell’arte per portare a compimento (o per sospendere una storia, ma è la stessa cosa, del resto dagli stoici in poi ogni sospensione è una risoluzione diversamente funzionale) dicevo, per portare a compimento una storia si partiva da un canovaccio e poi si improvvisava. Con questo non voglio dire che il testo sia qui improvvisato, ma che dà l’impressione di «cadere all’improvviso», di riversarsi sulla carta proprio per consentire alle truppe, ovvero ai lettori, di scegliere non solo il varco d’accesso ma anche e soprattutto il punto di fuga che ritengono più consono. Un esempio di maestria che potremmo sintetizzare rubando a Perilli l’affermazione in cui celebra la doppia consistenza della poetica dell’autrice parlando di ipotesi e insieme di sentenze inoppugnabili. Doppia consistenza e quindi doppio movimento, perché come sembra dirci, tra le righe, l’autrice «il lavoro poetico consiste nell’attribuire un segno». E difatti Basta scorrere il testo in una qualunque delle sue parti per trovarsi al cospetto di una struttura composta da una serie interminabile di figure, verosimiglianti o paradossali che siano, il cui unico scopo, forse, è quello di giustapporre – senza e con soluzioni di continuità/contiguità – le innumerevoli sfaccettature che guidano e condizionano (ma talvolta anche liberano) la nostra complessa quotidianità. E ben venga anche l’astrazione. Rendersi aliena al fatto significa comunque mettere al lavoro un dato sensibile; e rendersi compartecipe a una particolare sfera sensibile significa anche stabilire l’esattezza di un fatto. Che il fatto – filtrato dal dato (si legga anche «donato») – sfugga ad una comprensione immediata è cosa irrilevante, o forse fin troppo rilevante, perché in questa piccola genealogia del proprio vissuto letterario diventa necessario gettare sabbia sulle impronte ancora fresche. Il passaggio dalla prima opera (Oltreverso) alla seconda (Claustrofonia) prevede che alla prima azione di lasciare tracce di sé si arrivi alla seconda e definitiva azione di lasciare che sia il lettore a scoprire le tracce cancellate dall’autrice durante il percorso. E dunque il passaggio di Perilli – che lo stesso prefatore prende in prestito e che volevo citare come punto di partenza, sulla falsariga di quanto espresso, diventa qui il punto di chiusura, se chiusura si può dare – perché l’opera è decisamente aperta. Cito testualmente: “In principio era il verbo”, una frase fatta e riconoscibile e che lo stesso Perilli precisa di scrivere con la minuscola, perché il verbo qui non è presso Dio ma dentro l’Io , e che io qui vado a ri-definire, o se preferite a completare, così: ” In principio era il verbo ma Alla fine sopravvive solo il Verbo”, e questa volta mi prendo la responsabilità di scrivere Verbo con la maiuscola. (Enzo Campi)