Premio Bologna in Lettere 2019
Sezione B (opere inedite)
Giulio Maffii, Radio-grafie
Finalista
Della raccolta di Maffii mi sento di criticare la scelta di spezzare le parole con o senza trattino, di porre tra parentesi una lettera per ottenere polisemia e l’esigenza di mettere un appunto di lettura a fine percorso. In definitiva di segmentare la parola per alimentare il senso e i sensi e di doverlo poi giustificare.
Radio-grafie non sembra aver bisogno di questi dispositivi tecnici, anzitutto per il fluire coeso e significativo del materiale messo a profitto: una distillazione delle tematiche dei precedenti libri (in particolare Misinabì e Angina d’amour) che può senz’altro condensarsi nel verso: “nessuno incide se stesso dentro una pietra”. Paradigma icastico “questo” di una poesia addolorata, per quanto l’autore riesca a prendere le distanze da certo minimalismo intimista grazie al disincanto di colui che ha facoltà di nominare le quotidiane miserie e le ansie esistenziali attraverso una struttura poematica molto articolata, che denuncia la sorveglianza su una materia urgente, altrimenti destinata a deragliare nel già sentito.
Invece Maffii, in questo che possiamo considerare un poemetto, attraverso un’osservazione distaccata, guizzi inventivi ([Ti sorrido nel micromillesimo]) e cambi di registro e di velocità (Che ci siamo abituati a dire storie dalla cucina vs. uno squarcio dal petto rovescia le gocce trattenute dal calamo) riesce a restituirci una visione sulla precarietà dell’essere e sulla mutevolezza dei corpi e degli individui piuttosto personale, con accensioni di intensità notevoli (Mi depilo la cicatrice senza dolore / mi faccio bello e meretrice).
Un ulteriore raffreddamento, per così dire, giovevole a una materia tanto semanticamente satura (amore, morte, gioia, odio, vita, metastasi, dolore…), riguarda l’utilizzo dell’unico vero dispositivo che mette inevitabilmente in scacco gli altri interventi destrutturanti. Si tratta del “che” posto all’inizio di quasi ogni verso in quasi tutti i testi (eccetto due):
che ci nutriamo di una sola certezza
– non so quale –
che ci dissolviamo
[che ci regaliamo cose a saldo]
che per gli uomini accennati è il vuoto
che s’infrange nel buio dei portoni
La congiunzione “che” in posizione atopica, o meglio l’incipit di frase riallocato dal “che” in poi in absentia, produce una tensione verso ciò che manca, verso un fuori campo che il lettore è chiamato a integrare. Il meccanismo non sembra avere come obiettivo lo straniamento, il disorientamento percettivo (se non alle prime battute), quanto piuttosto assolvere a una funzione conativa che, attraverso la reiterazione, induca chi legge a un’identificazione o perlomeno a un coinvolgimento emotivo che passa prima di tutto dalla fisicità del suono, con il “che” come semplice oggetto fonomnemonico.
Il ritmo scaturisce da un accento forte ma curiosamente “in levare”, visto che la parte “in battere” (per utilizzare il gergo musicale caro a Maffii, si veda: che la vita dei vivi prosegue / in semitono tendente alla minima / la dominante batte e controbatte), quella dichiarativa e assertiva, viene omessa dal poeta e lasciata alla libera interpretazione del lettore. Ne deriva un apologo inceppato, una elencatio sulla caducità che ha l’andamento del pensiero a mezzavoce. Una ricetta proposta in termini confidenziali dotata di una sua unitarietà, ma che tendenzialmente è espandibile ad libitum.
Curiosamente il dispositivo utilizzato da Maffii mi ha evocato un saggio di René Daumal su I poteri della parola nella poetica indù, nello specifico il paragone per negazione molto diffuso nel linguaggio vedico degli inni. «Per dire, ad esempio, “saldo come una montagna”, il vedico dice prima “montagna”, poi, per far passare questa parola dal senso fisico al senso analogico, annulla il primo senso facendo seguire la parola dalla negazione ». Ecco, in Radio-grafie, in modo vagamente assimilabile, il “che” avversativo elide una parte fisica, che sta prima e che ci viene negata per l’impossibilità di articolare un discorso di forma compiuta, lasciando solo la propaggine analogica di un istmo perduto, probabilmente: “che non ho memoria neanche di ciò che scrivo”. (Daniele Poletti)