Nerio Vespertin vs Claudio Dal Pozzo

Bologna in Lettere 2024

Colpi di voce

Le note introduttive

Nerio Vespertin vs Claudio Dal Pozzo

 

All’interno del suo saggio “Società liquida”, Zygmunt Bauman rintracciava tre archetipi per dell’essere umano nella società moderna: il vagabondo, il pellegrino e il turista. Tre classi di individui segnati ognuno in modo diverso, dalla stessa necessità di spostarsi continuamente, alla ricerca di una destinazione a cui appartenere. Il vagabondo, segnato dalla consapevolezza di non raggiungerla mai, il pellegrino da quella di poterla raggiungere, prima o poi, e infine il turista, che a differenza dei suoi compagni di viaggio, più che essere diretto verso una meta, oscilla perennemente attorno allo stesso punto, alla febbrile ricerca di sensazioni fugaci e passeggere.

Sulla linea di questa riflessione, fra i versi di Claudio Dal Pozzo è possibile imbattersi in ognuno di questi tre archetipi, addentrandosi lungo il percorso di passeggiate che diventano fughe e di viaggi che diventano migrazioni: dal camionista che attraversa il mondo per lavoro, ma che è caccia di gratificazione nel locum della piacere (“qui si sta bene si mangia bene”), al cittadino spaesato che non si riconosce più nel panorama della sua città, deturpata da cantieri e speculazioni edilizie (“a incassare le spalle sotto lampade rosse/ riparare i timpani dai trapani demolitori/ e trasalire quando le macerie scivolano”).

Ma soprattutto, è nella voce disincantata e matura del poeta stesso che scopriamo il gusto di perderci, del non appartenere ad alcun luogo in particolare. Una voce che conserva il distacco del passante che ci si accosta, commentando casualmente quello che capita, per poi spiazzarci con la profondità di un commento invadente (“ognuno ha i propri cazzi storti/ bestemmie pucciate in bicchieri di vino/fantasmi seduti accanto a condividere i pasti/ e accovacciati nell’altra metà fredda del letto”).

Attraverso l’artificio di un dialogo leggero e colloquiale, rivolto quasi esclusivamente verso il lettore, Claudio Dal Pozzo ci conduce attraverso le tappe di una paziente ricerca interiore, un viaggio che attraversa le nostre città su minivan, berlina o ape, sfiora le periferie e termina con l’ennesima prossima meta. Soffermandosi sul senso del possesso e del tempo, sul perché si debba rispondere a messaggi frenetici in frazioni di secondo e mai soffermarsi sulle paure che celiamo dentro, è facile riscoprirsi tutti vagabondi, pur nella presunzione di indirizzi e di appartamenti che vogliono dire chi siamo (“non avere più paura/ ascolta il canto dei grilli/ come può farci migliori”).

Eppure, persino nelle osservazioni più sferzanti, Dal Pozzo non rinuncia mai allo slancio della speranza, la stessa che secondo Joseph Campbell attende ogni eroe al termine del suo viaggio personale: il superamento dei propri limiti (“sanificare il terreno dalla sporcizia dall’odio/ restare un attimo chini umili e in silenzio”), la risoluzione della sua ricerca (“ma con la bonaccia tornerò ad abbronzarmi/ a tuffarmi e nuotare nel sale e sotto il sole”). In una parola: la scoperta della sua vera identità (“per ritrovare la rotta quando le nuvole/ nascondono le stelle e l’ago della bussola”).

Ancora, la consacrazione di una spiritualità umana, fatta di creature prive di una patria, ma figlie dello stesso bisogno di essere casa (“di te non conosco/ data luogo di nascita e residenza […] ma benedicimi”).

L’invito per tutti, dunque, è quello di portarsi dietro solo poche cose: una ciambella da gonfiare con la bocca, un libro, qualche spilla sul bavero di jeans, un pacchetto azzurro pallido di Gauloises. Uno zaino vuoto da riempire di silenzi.

E dentro le orecchie i brani di una playlist da viaggio che raccoglie Bowie, Lou Reed e Iggy Pop. Per cantare a squarciagola: “And I’m a passenger of life and I drive and I drive…”.