Premio Bologna in Lettere 2024- Note critiche e appunti di lettura – Maria Laura Valente vs Mariasole Ariot

Premio Bologna in Lettere 2024

Sezione A – Opere edite

 

Mariasole Ariot Elegia (Anterem Edizioni)

 

«Fisso improvvisi istanti che portano in sé la propria morte e altri nascono… fisso gli istanti di metamorfosi ed è di una terribile bellezza la loro successione e concomitanza. […] Mi nutro appena, non voglio svegliarmi al di là del risveglio del giorno. […] E io, qui, mi obbligo alla severità di un linguaggio teso, mi obbligo alla nudità di uno scheletro bianco che è libero da umori. Ma lo scheletro è libero di vita e finché vivo rabbrividisco tutta. […] Questa è la vita vista dalla vita.»

Così, in Acqua viva, Clarice Lispector generava la lingua con cui inabissarsi nell’archetipica voragine volitiva del poetico: dire l’indicibile, modellare il linguaggio affinché estrofletta nell’interregno del sensorialmente esperibile il negativo fantasmatico di una realtà introiettata, metabolizzata, destrutturata.

Viaggiando su lunghezze d’onda similari, Mariasole Ariot scuoia incessantemente il linguaggio, lo snerva, ne scheggia le ossa, edificando, frammento dopo frammento, la sua personale fortress of solitude, straziante e sublime, che ha nome Elegia.

Dell’elegia classica, l’opera di Ariot ostende un duplice retaggio: la trasfigurazione autobiografica di stirpe callimachea e la dolenza intima dei migliori elegiaci latini di età augustea, dai quali mutua anche la delicatezza di canto. Quest’ultimo si accorda, in Ariot, sui toni di un dettato minimo, sull’agre dolcezza di un dire scarnificato, in cui le parole, snudate ed esposte, si consociano omericamente tra loro sotto l’egida del dolore esistenziale, si agganciano – anelli di catena – in virtù di salti logici e analogici, saldandosi per scarti fonematici, chiudendosi in torsioni paronomastiche.

Il dettato-catena si protende nello spazio senza il sollievo di un a-capo, senz’altra consolatio che il placebo di un segno diacritico a ricordare al verso, con Lacan, che troumatisé dal linguaggio lo siamo tutti, linguaggio incluso.

Ogni trauma, per vocazione etimologica, è una ferita, i cui lembi plasmano abissi; parimenti, la dolente bellezza del linguaggio traumatizzato di Ariot si scompone, modellando il sottile corpo sonoro dell’indicibile in uno spazio fantasmizzato, dove indefiniti, forme impersonali e persone verbali si rincorrono in scambievole trasmutazione.

Sciolto in manipoli di rigo-versi, lanciati in corsa sull’usta di una soterica reductio ad unum che sembra aleggiare a tratti nella douleur exquise di sapienti diluizioni anaforiche, in Elegia il dire poetico si frantuma in movimenti ontologici minimi, rantoli contratti e agonizzanti che, in guisa di istantanee sovraesposte di un inner landscape trasfigurato, offrono languido corpo visivo a ciò che è psichicamente infronteggiabile. 

Al cospetto dell’insostenibilità della visione, il dettato ariotiano si assottiglia: la catena muta in fil di ferro leggero e micidiale, che rievoca in chiave metaforica l’omologo materico ed emblematizzato che Murakami Ryü mette tra le diafane mani dell’eterea Yamazaki Asami nelle pagine di Audition (オーディション, Ōdishon).

Filiforme e letale, Elegia s’inabissa nei gorghi concettuali rivelati da multiple occorrenze: il lucore dell’ombra-notte, consustanziale alla luce; il volto del vuoto e il vuoto del volto, id est l’identità mancata; la morte (pantocratica, forse, panottica, a tratti, ma irrimediabilmente, e sepulvedianamente, intermittente); e la scrittura, infine, antrum horribile dei cenobiti di Clive Barker, stanza della tortura in accezione macchiana del linguaggio e dell’identità, entrambi manipolati, ricombinati in variabili potenzialmente infinite, dilaniati, eviscerati fino all’estrema (ma mai ultima) scaturigine di senso…

«Il terrore – di dire – e di non dire – la verità che a volte – arriva – in una notte – mentre riposano i mille – personaggi che hai creato – e tu diventi – la loro stanza vuota». (Maria Laura Valente)